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Lascari, il vento recitante
e la poesia di Schittino

Parole, musica, memoria, ricerca di un altrove, cromatismi sfuggenti e avvolgenti, leggerezza e dolore, dramma e ricerca di consolazione in una mitica Piana di Lascari: questa la scenografia composita e composta di una serata di mezzo agosto alle Salinelle, in quello storico pianoro dell´Ospedaletto sorto negli anni Trenta del secolo scorso per combattere la malaria che imperversava impietosamente in quella zona fortemente malsana della Sicilia fascista ben delineata dal presidente dell´associazione culturale “Polis” di Lascari, Salvatore Cesare.
La serata che si è aperta all´insegna della musica con il duo Alisena – Lanzetta ma che è diventata subito occhio attento sulla lirica, sulla storia, sulla spettacolarità, sulla scenicità, sull’analisi critico – concettuale della poesia di Giuseppe Schittino racchiusa nel suo libellum, “Un giorno il vento ti dirà”, presentato, anzi letteralmente sprigionato, in un vortice di elementi compositi e composti.
All´analisi concettuale ben delineata da Antonella Imboccari e da me condivisa.
Le poesie di Schittino, tenute per anni rinchiuse in un cassetto, prigioniere di un pudore e una pudicizia che solo chi si è accostato a una pubblicazione sa cosa sia, sono giunte a noi sospinte da un vento lieve che, subito dopo, ci ha riversato addosso, con la velocità di un uragano, tutti i volti e i risvolti dell´angoscia, del mistero, del dolore, della lotta.
La formazione letteraria di Schittino affonda certamente le origini nei grandi classici del Novecento, Montale e Ungaretti innanzitutto, ma anche i Decadenti e poi, andando a ritroso e spaziando, anche i classici francesi, Prévert innanzitutto e il mondo dantesco con tutto il suo pathos.
Il vento è certamente un traslato ma la metrica e la musicalità di parole spezzate e scandite, ora soffiate, ora gridate, ci ha fatto subito cogliere la sintassi ricercata che ricorre all’analogia (ululato, sorriso beffardo, sogni ormai stanchi, indolenti sillabe, gemito di agnelli scannati, il mare…come una bara) e alla tensione di espressioni come “denti aguzzi di uno squalo”, “prendere a calci i giorni di pietra” per comunicare la gravità della situazione personale e storica vissuta.
Le poesie che Schittino ha tenuto rinchiuse in un cassetto per tanto tempo, sono state all´improvviso spinte fuori non certamente dal vento ma dalla rabbia di uomo maturo che soffre per non aver potuto gridare fatti personali come il dolore di lutti familiari o problematiche sociali come quella dei migranti. Sono uscite fuori sospinte, anzi letteralmente lanciate (“prese a calci”, per parafrasare Schittino) da una metrica articolata e ben strutturata che è diventata subito musica e musicalità.
La metrica, che è fondamentale nella poesia di Schittino perché si coniuga alla musica e a un senso cromatico diffuso e soffuso, certamente onirico, l´abbiamo percepita molto bene in questa domenica agostana nelle voci recitanti del Trio Eriu - Fesi - Di Stefano; l´abbiamo vista tra i cromatismi dello scialle aleggiante e volteggiante della professoressa Grazia Fesi, tra i veli bianchi e l´ombrellino vezzoso ma non troppo dell´attrice e regista Sebastiana Eriu; tra i manti neri e le maschere di gesso di fantasmi che si celano per poi improvvisamente riapparire nella spettralità di tutto il Trio che si ricompone, nella sua parte finale, lí, tra gli olivi del piccolo grande parco dell´Ospedaletto sapientemente illuminato e trasfigurato da fasci di luci metafisici ma, soprattutto, dalla voce recitante dello stesso Schittino, prima fuori campo e poi, all´improvviso, eccolo lì, a tutto campo, imponente e possente, quasi trasfigurato, allungato, proiettato come un’ombra che avanza verso un punto (dove, quale?) …ecco, adesso è chiaro dove arriverà. Schittino arriva lì, infine, tra di loro, in mezzo al gruppo che adesso, all´improvviso, si compone ancora una volta e, questa volta, proprio insieme a lui, il poeta, che ha dato loro voce, allo stesso modo dei “Sei personaggi in cerca d´autore” di pirandelliana memoria con tutta la scomposizione dello spazio scenico.
Una metrica articolata e curata, frammentata e ricomposta, che si trasforma di continuo in musica e musicalità e si coniuga alle note del grande Ennio Morricone di “Nuovo Cinema Paradiso” che abbiamo sentito interpretato dal duo Alisena – Lanzetta: leggiadro, struggente omaggio a Tornatore e alla sua terra natale Bagheria (ma chiamiamola pure Baaria, qui, in questa mitica Sicilia!) e che è poi il suolo dove vive e opera oggi Schittino, anche lui migrante e migratore in un andirivieni di linguaggi, lessemi e fonemi, scomposizioni e frantumazioni varie.
Una serata in cui, tra parole e musica; tra cromatismi e fantasmagorie sceniche varie; tra riferimenti storici e affreschi di vita e di memorie, anch´io aleggio, volteggio, mi faccio spirale, lieve come il velo di una sposa, misteriosa e occhieggiante tra fronde di olivi che…, all´improvviso, ecco, diventano “fronde dei salici”…. E poi, la quiete.
20.08.2019
Teresa Triscari

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